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Saper leggere i sintomi e individuare la malattia al primo stadio è fondamentale per rallentarla
Il morbo di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa cronica a decorso progressivo.
Nei Paesi economicamente sviluppati, la principale causa di demenza senile è proprio l’Alzheimer, i cui sintomi più caratteristici sono: perdita della memoria, difficoltà nel linguaggio, confusione e disorientamento. La fascia di età più colpita è quella degli ultra-85enni (circa il 20% della popolazione), seguita da quella compresa tra i 65 e gli 85 anni (circa il 5%), ma l’esordio precoce – sebbene più raro – può verificarsi anche intorno ai 50 anni.
La malattia di Alzheimer è una forma di demenza che si manifesta prevalentemente nei soggetti anziani. Essa fu osservata e descritta per la prima volta agli inizi del Novecento dal neuropatologo e psichiatra tedesco Alois Alzheimer, da cui deriva la denominazione corrente.
La patologia comporta un progressivo ed irreversibile deterioramento del tessuto cerebrale e, conseguentemente, delle funzioni cognitive, causando sia un peggioramento delle condizioni psicofisiche che una riduzione dell’aspettativa di vita. Ciò è dovuto, in particolar modo, alle complicanze – spesso fatali – che si manifestano nelle fasi più avanzate della malattia.
Nel 2020, secondo una stima effettuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i soggetti colpiti dal morbo di Alzheimer su scala mondiale erano circa 50 milioni.
Inoltre, sempre l’OMS riporta un aumento dei nuovi casi compreso tra 6 e 7 milioni l’anno.
Nonostante esista una forma di Alzheimer precoce, riguardante persone tra i 30 e i 65 anni di età, essa costituisce soltanto una minima percentuale dei casi totali (fino al 5-10% circa).
Ad oggi, infatti, il maggior numero di casi si registra tra i soggetti over 65 (con un’incidenza pari al 5% della popolazione), con un picco del 20% dopo il superamento degli 85 anni.
In Italia – come riferito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) – i malati di Alzheimer sono circa 600 mila, su un totale di 1 milione di persone affette da qualche forma di demenza.
Generalmente si tende a suddividere l’evolversi della malattia di Alzheimer in tre fasi: quella iniziale, che vede il manifestarsi dei primi sintomi, quella intermedia e quella avanzata (o finale). L’andamento è progressivo: ciò significa che, per lo meno secondo le conoscenze mediche attuali, non è possibile che il soggetto ritorni ad uno stadio precedente, né che riacquisti – in parte o del tutto – le funzioni cerebrali intaccate dalla patologia.
Nella fase di esordio, il soggetto colpito da Alzheimer sperimenta sintomi quali:
Lo stadio iniziale è caratterizzato da una certa discontinuità nel manifestarsi dei sintomi.
Il paziente, infatti, tende a dimenticare eventi o discussioni avvenuti poco tempo prima, oppure, ancora, a smarrire oggetti personali. Fatica, inoltre, ad associare nomi e persone, luoghi o cose, a leggere e scrivere o ad eseguire azioni una volta comuni (aprassia).
Ai fini di una corretta diagnosi, è fondamentale valutare l’insorgenza di deficit cognitivi ed evitare di confondere l’Alzheimer e i suoi sintomi iniziali con problematiche di altra natura, tra cui la depressione. Difatti, sebbene le due patologie presentino aspetti e sintomi analoghi – come il rallentamento a livello motorio e di linguaggio o la mancanza di iniziativa – è utile ricordare che quest’ultima non provoca disorientamento, confusione o problemi di memoria.
Il paziente depresso, infatti, può sperimentare difficoltà di concentrazione, ma non fa fatica a ricordare date, persone o eventi, né ad orientarsi nell’ambiente. Dunque, sono proprio queste manifestazioni a costituire un campanello d’allarme e un motivo per consultare un medico.
Lo stadio intermedio dell’Alzheimer vede un progressivo – e, talvolta, rapido – peggioramento dei sintomi già sperimentati, seppure in forma lieve, nella fase di esordio.
In particolare, i problemi a livello di memoria a breve termine, linguaggio e calcolo tendono ad acuirsi e ad apparire molto più evidenti – anche per un eventuale osservatore esterno.
In questa fase, inoltre, si verifica una perdita significativa delle funzioni cognitive e, quindi, le abilità di ragionamento, apprendimento e giudizio risultano fortemente compromesse.
Contestualmente si manifestano nuovi sintomi, tra cui:
In questa fase il paziente perde gradualmente la capacità di svolgere le attività quotidiane, come l’alimentazione e l’igiene personale, in maniera autonoma, tanto da aver bisogno, sempre più spesso, dell’aiuto di un familiare o, comunque, di una figura esterna.
La fase avanzata dell’Alzheimer equivale ad uno sviluppo completo dei sintomi, che giungono a manifestarsi in forma severa e costante. Il paziente, a questo punto, non è più in grado di provvedere autonomamente a se stesso ed ai propri bisogni fisiologici: le sue capacità cognitive, infatti, risultano ormai del tutto danneggiate, il che si traduce in gravi deficit in fatto di memoria, linguaggio, comprensione, ragionamento e giudizio.
A ciò si aggiungono sbalzi di umore ed episodi di delirio e paranoia sempre più frequenti.
Tra i nuovi sintomi, invece, vi sono:
Nello stadio finale o avanzato, il malato di Alzheimer va incontro ad ulteriori complicanze derivanti dalla difficoltà (o impossibilità) di muoversi e comunicare con il mondo esterno.
Il paziente, ad esempio, non riesce ad allertare i familiari (o gli operatori) in caso di dolori, fastidi o effetti collaterali provocati da farmaci somministrati per altre patologie, rendendo difficile un’eventuale diagnosi e dilatando i tempi di intervento.
Inoltre, con il sopraggiungere della sintomatologia tipica della fase avanzata dell’Alzheimer, aumentano le probabilità di incorrere in:
Il morbo di Alzheimer ha come esito il decesso del paziente. Ciò può verificarsi sia per un lento decadimento delle funzioni cerebrali – processo che, in genere, impiega dai 3 ai 10 anni per giungere al termine – sia per complicanze dovute alle infezioni respiratorie e/o ad altre patologie correlate all’invecchiamento: ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari, ecc..
Ad oggi, purtroppo, le cause della malattia di Alzheimer risultano ancora poco chiare.
Secondo la teoria più accreditata, comunque, l’origine del morbo risiederebbe in una combinazione di più fattori, tra cui: genetica, familiarità, condizioni ambientali e stile di vita.
Di recente, inoltre, si è osservata una certa correlazione tra l’alterazione del metabolismo della proteina precursore della beta amiloide (detta APP) e lo sviluppo della patologia.
Difatti, tale alterazione, che avviene inspiegabilmente nel corso della vita di alcuni soggetti, si è rivelata essere causa della produzione di una sostanza neurotossica che, accumulandosi nel tessuto cerebrale, provocherebbe la morte delle sue cellule: una condizione, quest’ultima, che è si riscontra con maggiore frequenza nei casi di Alzheimer ad esordio precoce o giovanile.
Parallelamente, gli studi hanno dimostrato che sussistono anche altri fattori di rischio da tenere in considerazione: uno tra tutti, l’invecchiamento. È noto, infatti, che le probabilità di sviluppare la malattia aumentino gradualmente con l’avanzare dell’età, specialmente una volta superata la soglia dei 65 anni, per via dei cambiamenti delle strutture cellulari.
Altri aspetti segnalati dalla ricerca sono:
Nonostante i grandi passi avanti fatti dalla ricerca in campo medico e scientifico, ancora oggi non esiste una cura mirata per i malati di Alzheimer. Tuttavia, è possibile – ed anzi auspicabile – diagnosticare per tempo la patologia, con l’obiettivo di intervenire in maniera rapida e contrastarne, così, l’evoluzione.
I test eseguibili rientrano nelle seguenti tipologie:
Lo scopo di tali test, infatti, è quello di escludere tutte quelle cause che potrebbero portare ad una sintomatologia simile (ad esempio: tumori o alterazioni dei vasi sanguigni cerebrali, ma anche depressione, reazioni avverse a farmaci, problemi di tiroide, ecc.).
A livello farmacologico, invece, si cerca di rallentare l’aggravarsi dei sintomi, specie nei soggetti che si trovano in uno stadio iniziale della malattia. Altri trattamenti mirano a ridurre le problematiche più invalidanti, come i disturbi del sonno, la depressione, gli episodi di ansia, delirio, agitazione e/o paranoia. Esistono, infine, terapie non farmacologiche che, utilizzando vari tipi di stimoli (uditivi, visivi, ecc.), puntano a mantenere attive le funzioni cerebrali del paziente, ad orientarlo nella quotidianità ed a contrastare il progressivo distacco dalla realtà.
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